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18 marzo 2016

La questione degli immigrati:


IL PROBLEMA DEGLI ADOLESCENTI CHE GIUNGONO SOLI IN EUROPA:


Arrivano in buona parte dall'Africa Sub-sahariana i minori migranti non accompagnati. Superano i diecimila e solitamente vengono ospitati  nelle strutture di accoglienza laiche e cattoliche italiane.
Ma il problema è che non ci sono né strumenti sufficienti né politiche coerenti. Proprio per questo motivo tutti coloro che lavorano nell'ambito socio-educativo e sanitario non sono in grado di svolgere al meglio le attività di accoglienza, di accompagnamento e di cura.
I minori stranieri di cui si parla qui provengono da percorsi estremamente eterogenei: alcuni hanno attraversato il deserto del Sahara a piedi, altri sono dovuti passare per la Libia dove hanno subito gravi forme di violenze, altri ancora scappano da terribili guerre civili che stanno dilaniando paesi come il Sudan, la Siria, lo Zimbabwe. 
Ma tutti hanno dovuto affrontare l'enigmatico Mar Mediterraneo che con le sue impietose e violente onde ha cancellato le speranze di migliaia di uomini e donne.
Gli operatori dei servizi a cui spetta la presa in carico di minorenni stranieri avvertono per primi l'esigenza di riesaminare a fondo il tema dell'accoglienza. 
Mario Schermi, sociologo e consulente del Ministero della Giustizia dichiara: "Ogni volta che il pensiero classificatorio tenta di avere ragione degli umani, cade in tipologie improbabili, insostenibili. E' quasi impossibile tracciare un profilo unitario dei ragazzi che raggiungono l'Europa, più o meno in fuga dalla fame e dalle guerre."
Lo scorso 13 novembre si è tenuto un convegno all'Università di Bergamo, promosso dalla Fondazione Migrantes e dalla Caritas bergamasca. In questa occasione si è cercato di mettere a confronto l'esperienza italiana con quella francese, con particolare riferimento ai dispositivi clinici;  i quali obbediscono principalmente a due logiche: quella istituzionale e quella psico-culturale, che spesso si sovrappongono.

Il Centro di Ricerca e Formazione Interculturale (CREFI) , nel tener conto del travagliato vissuto personale di quei giovanissimi migranti, ricorre ai concetti di "natura" e di "modo di essere" per sottolineare l'importanza di avvicinarli nella loro individualità e non in termini di categoria omogenea, dal momento che ognuno di loro porta sulle spalle l'universo socio-familiare di origine e purtroppo anche l'esperienza oltremodo travagliata del viaggio.
A questo proposito Jacoub Marion, uno dei membri del CREFI, dice: "Il minore non accompagnato non è mai del tutto isolato ma, pur trattandosi spesso di un adolescente appartenente ad una categoria protetta e da aiutare, tale figura ha perso, durante il viaggio di migrazione, molte delle caratteristiche che lo avvicinavano all'infanzia, in quanto costretta a compiere scelte tipiche dell'età adulta."
 
Indubbiamente si tratta di giovanissimi che a causa di dolorose circostanze sono maturati molto in fretta. Ad ogni modo, questo aspetto non vi fa tornare alla mente la straordinaria figura di Joram Fridman? A me sì. Ricordate che nell'intervista che ho tradotto e pubblicato a gennaio egli a un certo punto diceva: "(...) pur dovendo prendere delle decisioni da adulto istantaneamente, sono rimasto un bambino che cercava altri bambini per giocare. Vede, io avevo un motto: "Vivere". Vivere. Ho fatto di tutto per rimanere vivo. Io volevo solo sopravvivere e questo avevo promesso a me stesso e a mio padre. Mi ricordo che non mi preoccupavo se l'acqua era fredda e profonda, semplicemente entravo."
Se non lo avete già fatto, vi consiglio caldamente di acquistare e di vedere il film, dal momento che il regista riesce proprio a creare in molte scene un'atmosfera angosciante, di "pathos." C'è un momento in cui il protagonista è inseguito da una squadra di militari nazisti che cercano di fermare la sua corsa sparandogli. Tuttavia, il perspicace Jurek (il suo falso nome) riesce a nascondersi nelle acque di uno stagno e così si salva.
Anche Yoram è stato costretto a crescere molto rapidamente... Nel 1945 era un tredicenne mutilato, denutrito, estremamente addolorato e bisognoso di affetto. E nonostante questo, non aveva perduto la sua incontenibile voglia di vivere. Però effettivamente ci sono voluti molti anni per elaborare la tragedia della guerra. Ha creduto in se stesso e, una volta divenuto uomo, ha trovato la forza di rinascere nell'amore coniugale. E poi, essendo rimasto molto colpito da coloro che volevano raccontare per non far dimenticare, ha deciso di narrare la sua infanzia, di farsi ascoltare.
Non è casuale il riferimento a Yoram; non è la mia voglia di divagare che lo coinvolge come termine di paragone con i piccoli immigrati del XXI secolo. Infatti, la psicopedagogia culturale suggerirebbe di porsi all'ascolto delle vicende traumatiche dei migranti, in modo tale che essi stessi possano imparare a rielaborare e a superare il passato. Il dialogo inoltre sarebbe un mezzo importante per trovare le giuste modalità del loro inserimento nel paese di arrivo.
E' utile riflettere sul fatto che l'esperienza della migrazione non consiste soltanto nello sradicamento ma anche nell'incontro tra diverse lingue, culture, rituali religiosi e tradizioni. L'arrivo degli immigrati è una risorsa non soltanto per il nostro Paese ma per tutta la società europea, dal momento che crea inevitabilmente delle relazioni fra culture e appartenenze multiple.
E qui, mi torna alla mente una frase molto espressiva che Armand Fremont, geografo francese, ha scritto nel suo manuale destinato agli universitari e intitolato: "Vi piace la geografia?". Domanda che suona come provocazione, anche se io devo ammettere che, da quando sono iscritta all'Università, questa disciplina ha cominciato a piacermi davvero molto e seguo con interesse le lezioni.
Ad ogni modo, Fremont dice: "Il migrante non è né di qui né di laggiù". Non credo esista frase più veritiera. Io ne ho parlato con la mia insegnante di geografia qualche settimana fa e l'ho capita perfettamente. Rifletteteci bene anche voi. Eccovi alcune espressioni-chiave: Sradicamento dalla comunità= arrivo in un paese ricco= riconoscimento delle diversità= integrazione (l'immigrato accetta il modello culturale dello Stato che lo ospita)= ritorno alle origini= con conseguenti cambiamenti sociali avvenuti nel corso del tempo.
Costruiamo ponti e non muri. Aspiriamo a creare arcobaleni di pace e di speranza che congiungono il cielo con la terra. Solo così anche noi europei potremmo crescere nell'incontro con l'alterità.



 IO STO CON LA SPOSA:
 
E' un film appena uscito. Sono andata a vederlo al cinema del mio paese qualche giorno fa. 
Ecco un abbozzo di trama: un poeta palestinese e un giornalista italiano aiutano cinque profughi siriani e palestinesi, sbarcati prima a Lampedusa e giunti poi a Milano, a raggiungere la Svezia. Disobbedendo alle leggi. Così coinvolgono anche Tasmin, una ragazza siriana fornita di passaporto tedesco, in modo tale da inscenare un corteo nuziale. Tanto, chi oserebbe mai fermare un corteo nuziale? Il loro viaggio dura quattro giorni e attraversano in autostrada la Francia, il Lussemburgo, il Nord della Germania e la Danimarca. Da Copenhaghen poi devono affrontare il passaggio più difficile dell'avventura: imbarcarsi di nascosto in un treno per poter raggiungere Malmo, cittadina della Svezia Meridionale.
Riporto qui le frasi più profonde e più significative del film, pronunciate da Tasmin:
C’è un sole unico per tutta l’umanità, una sola luna. Anche il mare è di tutti, così la vita. È di tutti e per tutti. Come è possibile che alcuni siano liberi di attraversare il mare, mentre per altri farlo significa rischiare di morire?"



MANAR:

Certo che sto con la sposa. Certo che sto dalla parte dei deboli, dei discriminati, dei richiedenti asilo! E quindi sto anche con Manar. Ciò che mi è rimasto impresso della vicenda narrata nel film è proprio la figura di Manar, fuggito insieme al padre da Yarmouk, ghetto palestinese di Damasco, per poter raggiungere la Svezia. 

Entrambi arrivano in Italia a bordo di un barcone. Manar ha rischiato di essere compreso proprio nel numero (già enorme) di quei ragazzini che giungono qui da soli. Il padre, aggrappato in modo instabile alla barca, stava per essere risucchiato dal vortice dell’elica. Gli scafisti però gli hanno salvato la vita. Una volta giunti in Italia, la polizia ha costretto il padre di Manar a dare le impronte. Bella fregatura! Per questo motivo, i due hanno raggiunto la Svezia ma poco dopo sono stati respinti e rimandati in Italia. Ora hanno ottenuto lo status di rifugiati politici e vivono in provincia di Torino, da circa due anni.  Manar sogna di fare il rapper. Il padre lo sa, ne è molto orgoglioso e ha un desiderio inconfessato: che il suo ragazzo possa esprimere liberamente il suo talento e che, magari, diventi famoso.
I testi di Manar, in arabo, parlano di campi profughi, guerra, discriminazione.
I suoi versi raccontano della sua terra martoriata dagli orrori della guerra civile.  
Ciò che deve farci riflettere è che è poco più di un bambino. E, pur nel dolore, riesce a cantare e a comunicare energia e vitalità.




Questo sì che è rap! Altroché Fedez o Emis Killa, adorati da molti miei coetanei. Il rap di Fedez anestetizza l'animo, non fa riflettere, è venato da un cupissimo pessimismo che non propone vie d'uscita. 


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