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25 aprile 2017

Adelmo Cervi: il figlio di un "eroe"?!

Due anni fa, per preparare un esame intitolato "Introduzione agli studi storici", (peraltro obbligatorio nella mia facoltà!), ho studiato anche un manuale che catalogava le tipologie delle fonti. 
L'intervista ad Adelmo era inclusa negli esempi delle fonti orali.
Forse i nonni dei giovani come me conoscono la tragica vicenda dei sette fratelli Cervi, o almeno, se non l'hanno mai sentita raccontare, negli anni quaranta del secolo scorso erano comunque tutti già nati.
Io la riassumo qui sotto, ma innanzitutto specifico che Adelmo è il figlio di Aldo Cervi, uno dei fratelli condannati a morte nel pieno della seconda guerra mondiale.
Ne approfitterò inoltre per lanciare una questione etica piuttosto interessante.

I fratelli Cervi sono considerati uno dei simboli della Resistenza italiana, non soltanto per la loro morte ma anche per ciò che l'aveva preceduta, ovvero, per la loro volontà di emancipazione culturale.
I Cervi erano dei mezzadri emiliani che avevano studiato la letteratura, la storia e la filosofia da autodidatti; dopodiché avevano preso in affitto un terreno tra Campegine e Gattatico (provincia di Reggio Emilia) con lo scopo di farlo divenire un'azienda produttiva agricola. Erano riusciti nell'intento. Oltre a ciò, avevano radicalmente rotto i legami con i rigidi princìpi cattolici che all'epoca quasi tutti i genitori trasmettevano ai figli e avevano aderito alle idee comuniste in pieno regime fascista.


Aldo Cervi, con il sostegno degli altri fratelli era riuscito a istituire una piccola biblioteca popolare nella quale si radunavano i dissidenti della dittatura di Mussolini e per di più accoglieva in casa numerosi ex prigionieri scappati dai campi di concentramento dopo l'8 settembre 1943. Con essi aveva formato un gruppo di partigiani abbastanza consistente.
Naturalmente, alla fine di novembre dello stesso anno i Cervi erano stati arrestati e un mese dopo erano stati condannati a morte da un Tribunale Straordinario della Repubblica Sociale Italiana e fucilati il 30 dicembre. Dopo nemmeno un anno la loro madre Genoveffa morì a causa di questo enorme e insostenibile dolore. Ci credo, poveraccia! Quale altra ragione di vita può trovare una donna di circa settant'anni alla quale sono stati uccisi tutti e sette i figli?

A gestire l'azienda agricola rimasero quattro vedove e undici bambini. Nel dicembre 1943 Adelmo aveva soltanto quattro mesi.

Il mio manuale di studio riporta ciò che Adelmo ha dichiarato nelle interviste. Io riscrivo le parti più significative:

"Mio padre era considerato un matto in paese per le scelte politiche intransigenti, per le innovazioni che con i fratelli aveva introdotto nella conduzione del podere, per la scelta di avere due figli da una donna senza sposarla. (...) Era un rivoluzionario puro, che io ho sempre messo in discussione, perché c'è qualcosa di non umano. Ti fai trasportare da ideali non considerando che la realtà è un'altra: prima di tutto il solido che c'è lo devi mantenere. (...)  La storia di mio padre e dei miei zii è uno spaccato di questo mondo: sei eroe e miserabile allo stesso tempo. L'uomo è fatto così. Il comunismo è scritto bene ma è stato messo in pratica dall'uomo, l'ha fatto a sua immagine.
(...) Dopo la morte di tutti e sette il problema principale era vivere, dare da mangiare a undici bambini e io credo che questa cosa mi abbia incattivito... sentire parlare di tuo padre come un rivoluzionario che ha dato la vita per cambiare il mondo e poi vedere che il tuo problema principale era quello di far quadrare i conti: se penso che nessuno di noi è mai andato oltre alle elementari perché c'era da andare a lavorare nei campi. Ho odiato la mia casa, ho odiato la fattoria, perché c'era da pagare il mutuo, perché c'erano da saldare i debiti con la latteria, perché c'era da tirare la cinghia... E' comprensibile che la scuola arrivava dopo. E mio padre e i miei zii si sono fatti uccidere per questo?"


RIFLESSIONE ETICA:

Premetto che ammiro moltissimo tutti coloro che sacrificano la propria vita per degli ideali e per dei principi. Di questo probabilmente ve ne sarete accorti leggendo il mio post su José Sanchez del Rio e le mie considerazioni su Sophie Scholl.
Ma è giusto dare la vita per un ideale lasciando per sempre tutte le persone che amiamo e che ci amano? E' giusto morire nella straordinaria coerenza con i propri principi senza considerare il lacerante dolore della perdita che familiari e amici proveranno dopo che non ci saremo più? 
Questa storia mi ha stimolata a immaginare una strana e improbabile proiezione nel futuro, mi ha fatto cioè pensare a un' Anna intorno ai 40 anni, moglie e madre di famiglia.
Mi sono immaginata una me adulta che, pur avendo gratificanti responsabilità come una famiglia e un lavoro nel quale si sente realizzata, decide di partire per un servizio di Volontariato Internazionale in un paese africano poverissimo e oppresso da un duro governo autoritario.
Dunque, immaginate che io lasci a casa un marito appartenente alla mia stessa generazione e un figlio piccolo, promettendo loro di ritornare a casa sana e salva. Poi però, durante il mio soggiorno, oltre a svolgere il mio servizio con grande entusiasmo, mi faccio infervorare da idee come: giustizia sociale, libertà di stampa e rispetto delle libertà degli individui. E inizio a organizzare, con molte altre persone, delle aperte proteste contro la dittatura. I collaboratori del governo mi arrestano e mi condannano a morte. E io muoio lontana migliaia di chilometri dai miei genitori, da mio marito e da mio figlio, che forse non sapranno mai i motivi per cui sono stata giustiziata.
Io non esisto più, il mio bambino sui cinque anni, triste e angosciato, continua a chiedere di me a un padre magari perennemente con la lacrima sull'occhio... Basta, non posso andare oltre anche perché non voglio assolutamente che accada una cosa del genere. La volontaria internazionale probabilmente la farò, ma non in Africa e soprattutto, a magistrale conclusa e quindi molto prima di raggiungere i 40 anni.
Datemi pure della pazza, della strampalata. Riconosco l'assurdità di questi pensieri ma almeno mi sono serviti per capire che nella vita non ci siamo soltanto noi con i nostri ideali e i nostri desideri di rivoluzione!
Se non si tiene conto anche dei sentimenti altrui, che vita è mai la nostra?


"I CAMPI IN APRILE"- LIGABUE:

In questa bellissima canzone Luciano Ligabue narra la storia di Luciano Tondelli, un partigiano di Correggio (provincia di Parma) morto il 25 aprile 1945,  dieci giorni prima della fine della guerra in Europa. (In Europa, occhio, perché il 6 agosto gli americani hanno lanciato la bomba atomica su Nagasaki e Hiroshima!).
Mi è piaciuto molto il fatto che abbia deciso di narrarla in prima persona, creando una rapporto di "immedesimazione" nel protagonista di questa tragedia realmente accaduta.
Luciano Tondelli comunque non è stato l'unico giovane partigiano a morire, egli è anche l'emblema di tutti i ventenni ai quali una guerra atroce e sanguinosa ha sottratto la vita.



- "Se parti per sempre a neanche vent'anni non sei mai l'eroe, sei sempre il ragazzo."= A vent'anni è molto facile innamorarsi, non soltanto di una persona ma anche di un'ideologia e di ideali astratti. Io a dire il vero è dalla prima adolescenza che sono follemente "attaccata" ai concetti di pace e di giustizia. Ma se un ventenne perde la vita nel combattere, è più probabile che venga commiserato come una giovanissima vittima piuttosto che come un grande eroe da prima pagina di un libro di storia. A vent'anni sei semplicemente un ragazzo, un post-adolescente spesso incapace di analizzare in modo razionale e freddo la realtà che ti circonda.

-" Se muori in aprile, se muori con il sole finisce che muori aspettando l'estate."= Ricordate che più di una volta nei miei post ho paragonato la giovinezza alla primavera della vita. Tutti sono d'accordo nell'affermare che è contro natura morire alla mia età o comunque poco prima di compiere vent'anni. Sotto un aspetto i vent'anni non sono molto diversi dagli anni dell'adolescenza, perché entrambi sono periodi della vita in cui di solito si attende il futuro un po' con entusiasmo e un po' con apprensione, in cui si disegnano progetti, in cui ci si impegna a realizzare sogni che coltiviamo sin dall'infanzia. Te ne vai dal mondo senza poter mai vivere le gioie e le responsabilità tipiche dell'età adulta.

-"Ricorda ragazzo, la storia non cambia se tu non la cambi."= Questo è un messaggio diretto ai giovani. A 14 anni ho scritto una breve lettera alla redazione del "Piccolo Missionario", rivista che si occupa di sensibilizzare i ragazzini su tematiche come la povertà, la fame, la solidarietà, l'accoglienza nei confronti del diverso. Due delle frasi conclusive erano: 
"Credo che noi giovani abbiamo una grande responsabilità: guidare il futuro del mondo. Ma dobbiamo essere sostenuti dagli adulti che invece mi sembrano spesso superficiali e vuoti."


Sulla seconda frase sono rimasta dello stesso parere! La prima, ora che sono cresciuta, non la ritengo propriamente corretta: noi giovani dobbiamo costruire progetti e rimboccarci le maniche per realizzare i sogni che custodiamo nel cuore e per sviluppare le nostre qualità più preziose, gli adulti devono indirizzarci verso ciò che è doveroso, buono e giusto e dunque devono  "guidare con noi il futuro del mondo"
Sì insomma, dovrebbero! Perché la realtà è un'altra. La realtà è che ci sono molti "ragazzi fuori"a causa di adulti inconsistenti e a causa della logica, purtroppo imperante, del 
"Tutto è lecito, se vuoi farlo".




15 aprile 2017

"Vide e credette"- il cammino della fede qualificata dall'amore:

E' il brano relativo alla Risurrezione di Cristo, tratto dal Vangelo di Giovanni. Riscrivo qui gli appunti presi durante una delle lezioni di Bibbia che ho frequentato, accompagnati naturalmente anche da riflessioni personali.
Devo però avvertirvi: farò riferimento a dei verbi in greco antico che costituiscono i concetti fondamentali per poter comprendere fino in fondo questo Vangelo.


"Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli perciò se ne tornarono di nuovo a casa."

Come potete notare ho evidenziato tutte le parole che hanno a che fare con la sfera semantica del vedere.
Nel greco antico ci sono tre verbi che indicano tre modi differenti per esprimere l'idea del vedere.

A) C'è il vedere materiale della Maddalena, indicato nel testo greco con il verbo βλέπω (blèpo) che, segnato dalla pre-comprensione che la morte è la fine, si limita a dedurre dalla pietra ribaltata che il cadavere è stato trafugato, che c'è un'assenza dolorosa e incolmabile. La conclusione che ne deriva è: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto".

B) Pietro entra poco dopo nel sepolcro, nel luogo della morte, e osserva. Nel testo greco stavolta compare il verbo θεωρέω (theorèo), riferito a un modo attento e accurato di vedere la realtà. E' una forma verbale il cui significato ricorda l'espressione latina "intus legere", tradotta letteralmente come"leggere dentro".
Non devono essere considerate intelligenti soltanto le persone che ottengono valutazioni alte a scuola e in ambiente accademico. L'intelligente è anche colui che sa leggere dentro se stesso perché è desideroso di imparare a comprendere bene i propri pensieri e le proprie intenzioni. L'intelligente è inoltre in grado di intuire gli stati d'animo altrui attraverso una profonda osservazione di sguardi, di volti e di espressioni.
Inoltre tutti noi, anche chi come me è in possesso della maturità classica e quindi è piuttosto ignorante nelle materie scientifiche, durante le lezioni di matematica, abbiamo incontrato la parola "teorema" 
(di Pitagora, di Talete, di Euclide...). Teorema deriva proprio da quel verbo greco, senza contare inoltre che i personaggi citati tra parentesi sono tutti vissuti nell'Antica Grecia.
I teoremi matematici derivano tutti dalla ferrea volontà di verificare attraverso numeri, simboli e procedimenti di calcolo la veridicità di scrupolose osservazioni e di ipotesi formulate a proposito di un fenomeno naturale o di un aspetto astratto della geometria.
E ora avete capito il motivo per cui ancora oggi i test sui quozienti intellettivi sono basati soprattutto sulla logica matematica!
Anche nella filosofia e nella letteratura sono state formulate delle teorie interessanti sull'esistenza umana e sui sentimenti che la rendono degna di essere vissuta. Senza numeri e senza calcoli, è vero, ma con l'aiuto soprattutto di alcune complesse riflessioni su esperienze personali.

C) Entra anche l'altro discepolo, il discepolo amato. "E vide e credette". Stavolta appare un verbo famosissimo, ovvero, ράω (orào). Tra l'altro per noi classicisti questo è un verbo irregolare assolutamente da memorizzare perché presenta le forme più strane e insolite nella formazione di molti tempi verbali diversi dal presente.  Ad ogni modo, ράω indica la disponibilità ad accogliere il mistero di Dio, il vedere a partire da un orizzonte di amore incondizionato. Ne consegue dunque che credere non è avere delle informazioni su Dio ma coltivare un rapporto con Dio, alimentato non soltanto da buone intenzioni ma anche dal legame con le Sacre Scritture. 
Se ad un cristiano sta a cuore instaurare un rapporto significativo e non superficiale con Dio, allora deve impegnarsi a trovare qualche minuto, durante la settimana, per pregare in silenzio e magari leggere poche righe di una pagina di Vangelo o di Bibbia. 
E' come il rapporto che si coltiva con un amico o con un ragazzo che si vorrebbe diventasse più di un conoscente o più di un amico. L'ars amandi (cit. del titolo di un'opera di Ovidio) a mio avviso la si apprende prima di tutto frequentando la persona alla quale si tiene molto, manifestando apertamente la voglia di incontrarla. 
Meno si prega, più ci si sente estranei e lontani dai ricchi messaggi evangelici. Meno ci si incontra (tra amici o tra coppie), più il feeling si raffredda. Ditemi se non ho ragione! E dimostratemi se un brano biblico è davvero sempre così lontano dall'attualità!


Per Monsignor Don Ezio Falavegna, il relatore che ha tenuto l'ultima conferenza biblica alla quale ho partecipato, sono cinque le tappe (tappe? io li definirei atteggiamenti più che tappe) esistenziali fondamentali per poter comprendere il meraviglioso evento della Risurrezione:

1) Quando in una situazione molto difficile l'unica soluzione sembra chiudersi in se stessi e nel proprio dolore, si deve trovare il coraggio di camminare nel buio, per poterne uscire. Da qui inizia la fede nella Risurrezione, che è la speranza in un futuro migliore.

2) E' legittimo e umano, nei momenti di particolare sofferenza, gridare: "Dov'è Dio?" Questa domanda però non deve farci sprofondare nella disperazione, ma invitarci a non essere banali nelle sofferenze altrui, stimolarci dunque a stare vicino a coloro che soffrono, a tendere la mano con gratuità e benevolenza. L'essere davvero vicino agli altri non è mai dato da un'aspettativa di tornaconto.

3) Occorre però lo sguardo attento e intelligente di Pietro per individuare una scintilla di speranza. La sua esatta deduzione, che consiste in una frase pensata e non riportata: "Non lo hanno portato via!" è già una frase di Risurrezione.

4) Avere una disponibilità accogliente nei confronti della vita, trovare una possibilità di vita dentro la morte.

5) Volontà di credere, anche se questo credere dovrà continuamente alimentarsi.

Concluderei con la sintetica analisi di un dipinto.


BEATO ANGELICO- DEPOSIZIONE DI CRISTO: 



E' stato realizzato intorno al 1430 circa. E' un'opera dotata ancora di elementi gotici, visibili soprattutto nella cornice dotata di tre archi a sesto acuto. La profondità prospettica è notevole: sullo sfondo a sinistra, il pittore inserisce un castello e un ambiente cittadino con case e torri, mentre a destra sono visibili delle alte colline con alberi e case. Notate inoltre che gli angeli, proprio come negli affreschi degli Scrovegni di Giotto, sono raffigurati a mezzo busto, con sfumature nella zona dei piedi. 
Al centro, il corpo diagonale di Gesù deposto dalla croce spezza l'andamento verticale del dipinto. La Maddalena è inginocchiata in primo piano a sinistra, mentre prende i piedi di Cristo con le mani.
I gruppi laterali sono divisi tra le pie donne a sinistra, pronte ad accogliere il corpo di Cristo, e il gruppo degli uomini di destra, tra i quali vi sono degli intellettuali che discutono sui simboli della Passione.
Il suolo è coperto da una fitta serie di fiorellini realizzati con minuzia di particolari che alludono alla primavera, periodo in cui si svolge la scena rappresentata e anche naturalmente simbolo di rinascita.


Buona Pasqua!
χριστόs  άνέστη! (Cristo è risorto!)