Visualizzazioni totali

18 settembre 2017

"Una barca nel bosco", Paola Mastrocola


Un romanzo che, a mio avviso, tutti i futuri-possibili insegnanti dovrebbero leggere.
Potete comprendere il senso di questo strano titolo soltanto se leggete bene il contenuto.

Paola Mastrocola è docente di italiano in un liceo scientifico di Torino e da diversi anni ormai coltiva il suo talento per la scrittura.
Presumo che questo libro sia frutto di esperienze scolastiche accumulate nel corso del tempo.

Il protagonista della storia è Gaspare Torrente, un ragazzino particolarmente intelligente originario della Sicilia e figlio di un pescatore, che si trasferisce a Torino con la madre e la zia per poter frequentare il liceo.
Durante il suo percorso didattico alle medie Gaspare ha avuto modo, grazie a una professoressa che ha intuito le sue capacità, di imparare molte regole di grammatica latina.
A quattordici anni è già in grado di tradurre Orazio. Per questo nutre grandi aspettative verso il liceo.

A scuola però viene a contatto con compagni per lo più superficiali e immaturi e con insegnanti ai quali manca la voglia di insegnare.
Tra i professori, mi dispiace scriverlo, il peggiore è proprio quello di italiano e latino (docente che dovrebbe costituire un importante punto di riferimento anche per gli allievi di un liceo scientifico tradizionale).
Questo è uno dei punti più clamorosi:

"Di latino è da due mesi che siamo a pagina 12. Allora ho chiesto al professore quando faremo una versione. Mi ha guardato strano e mi ha detto: poi ne parliamo. (...)
«Aprite a pagina 12 ». E comincia a leggere ad alta voce. Io ogni volta penso: perché legge sul libro invece di spiegare? Ma lo penso soltanto.
Il nostro professore di lettere si chiama De Gente Ruggero, ha una cartella di cuoio vecchia con delle macchie che sembrano di olio e sputacchia sempre un po' quando parla.
Chiude il libro e dice forte, a tutti: «Siccome il vostro compagno Torrente mi chiede insistentemente quando faremo una versione, ora ve lo dico.»
Insistentemente se l'è inventato lui. Comunque tutti mi guardano malissimo. Dice che una vera versione ce la darà forse a fine anno, quando avremo fatto almeno la terza declinazione. (...) E comunque faremo solo le declinazioni quest'anno, perché noi vogliamo fare un latino agile flessibile. Dice anche più o meno così: «Basta con queste grammatiche decrepite stantie, la scuola sta cambiando, il cambiamento è alle porte ed è giusto fare cose utili... Utili alla vostra vita, utili per il mondo del lavoro, utili per la flessibilità che oggi la società... Merda!»
Merda perché nella foga gli è caduto il gesso. E io non lo so se un insegnante di latino può dire merda (...)"

Quando ho letto queste righe ho pensato nel mio dialetto: "Certo che gli adolescenti i ghè par gnente!"
Ridete pure, ma se un ragazzino facesse i discorsi che fa questo professore, potrei anche compatirlo.
Nella fase adolescenziale 14-16 anni difficilmente si è in grado di concentrarsi a lungo su una versione abbastanza impegnativa.
A quell'età è sicuramente preferibile una partita a basket o a calcio ad una versione in una lingua non più parlata. A quell'età un'ora di shopping da H&M e un bel film romantico sono molto più piacevoli dei compiti di latino.
Dico questo perché, nonostante fossi considerata da molti una ragazzina un po' più matura della norma, sono stata anch'io un'adolescente, tra l'altro quotidianamente a contatto con altri giovanissimi della mia età.
Ma personalmente non credo che "evitare di affrontare il programma" sia un buon metodo per far diventare il latino una lingua agile-flessibile.
Innanzitutto bisognerebbe smettere di chiamarla "lingua morta". Questa è un'espressione che fa perdere ai ragazzi la voglia di apprenderla. Il latino non è morto, è più che vivo per il fatto che è un prodotto culturale storico, di grande rilevanza quotidiana. Non scherzo.
La prima volta che entrerò nella classe prima di un liceo magari scriverò alcune parole in latino con la corrispondente traduzione italiana. Penso sia l'unico modo per far capire l'utilità di questa materia.
Alcuni esempi li faccio anche qui sotto, per voi lettori:

Trado: in latino classico "consegnare", in latino tardo antico "tradire", strettamente legato all'episodio dell'arresto di Gesù. Quindi: Gesù consegnato ai soldati è stato tradito da uno dei discepoli.

Mitto: significa "mandare, inviare". Il mittente di una lettera o di una mail o di un messaggio è "colui che invia qualcosa a qualcuno".

Audio: significa "udire, ascoltare". Quindi gli audio-visivi, le audio-cassette, i messaggi Whatsapp audio implicano necessariamente l'utilizzo del senso dell'udito e l'ascolto.

Adolesco: significa "crescere, diventare adulto". L'adolescente è una persona che ha abbandonato l'infanzia per raggiungere l'età adulta e quindi, si presume che riesca a raggiungere la responsabilità delle proprie idee e delle proprie azioni.

Timeo: significa "temere, aver paura". E, deduzione di Anna diciassettenne durante lo svolgimento di un tema in classe: "colui che è timido ha paura del giudizio altrui".

Senza contare che una frase come "Amicus certus in re incerta cernitur", ovvero, "Il vero amico si distingue nelle situazioni difficili"è verissima, in ogni tempo. 
E' una sentenza di Ennio, un letterato romano vissuto a cavallo tra III° e II° secolo a.C. Così antico e indubbiamente appartenente al passato remoto, ma così attuale! Incredibile, no?

Capite ora perché questa lingua antica in questo stranissimo XXI° secolo è detestata e trascurata? Perché permetterebbe di comprendere appieno i significati delle parole della nostra lingua e quindi la realtà che ci circonda. Ma la gente vuota non desidera prodotti culturali e tantomeno vuole approfondirli.

Lungi da me denigrare chi ha scelto o comunque sta frequentando una scuola superiore in cui non è previsto il latino. Non me la prendo assolutamente con chi ha scelto istituti tecnici, professionali oppure licei come il musicale e le scienze applicate. Questi indirizzi fateli se vi piace approfondire materie come economia, diritto, storia della musica e matematica. Sceglieteli soprattutto per questo, non perché così evitate di studiare latino, che tanto, anche una scuola senza latino è comunque impegnativa.
Dire: "Vado alle scienze applicate perché non c'è latino" è come pensare: "Mi iscrivo al classico perché così studierò poca matematica". Per esperienza personale so bene che al liceo classico di matematica se ne fa poca, e quel poco che si fa lo si fa male purtroppo. Ma ciò non toglie il fatto che sia comunque un liceo tosto!

Queste riflessioni non vogliono affatto attaccare gli indirizzi senza latino; casomai vogliono essere una critica indirizzata agli adulti ai quali non sta a cuore la formazione culturale dei giovani.

Ho riso quando l'ho vista per la prima volta, ma era un riso amaro!

Il primo anno di scuola superiore per Gaspare è un vero e proprio supplizio.
Brillantissimo a scuola, mai apprezzato dagli insegnanti, emarginato e disprezzato da tutti i compagni e naturalmente, messo nelle condizioni di non condividere con nessuno la soddisfazione di un dieci nei compiti di latino.
E qui ho pensato a me quando ero al triennio: puntualmente, per cercare di evitare smorfie e sbuffi generati dall'invidia, mi nascondevo dietro una pila di libri e quaderni posati sul mio banco ogni volta che prendevo nove in italiano e ogni volta che una circolare comunicava che rientravo tra i primi classificati ad un concorso di poesia. Che incubo il liceo, per certi aspetti!

Oltre a ciò Gaspare, per non deludere il padre rimasto in Sicilia, mente a proposito della scuola.
Devo precisare infatti che il padre del ragazzino aveva acconsentito molto volentieri al trasferimento del figlio nel nord Italia per potergli garantire un livello di istruzione elevato.

"Tutto bene papà. La prima settimana abbiamo già fatto i verbi deponenti. Il liceo è bello tosto, papà, proprio come dicevi tu!"

Che enorme frottola!! I verbi deponenti sono una delle ultime cose che si studiano. Prima c'è molto, molto altro!
Consentitemi di riportare un altro ricordo scolastico della mia adolescenza.
Io non ho mai preso un dieci in tutto il quinquennio.
Il mio primissimo voto al liceo è stato un 7+ proprio in un'interrogazione di grammatica latina in cui tra l'altro mi ero offerta volontaria.
(Che rischio! In una materia mai affrontata prima! Ma quanto cavolo ero incosciente all'epoca??)
Era il 5 ottobre 2009: questo lo so perché conservo ancora i miei libretti personali di medie e superiori.
Bene, gli argomenti di quella interrogazione erano: la prima declinazione, le leggi dell'accento latino, le funzioni dei casi, il dativo di possesso. Cioè, le cose più elementari della lingua che in ogni caso all'epoca, per una principiante, costituivano dei grattacapi ansiogeni.

Gaspare è costretto a far copiare le traduzioni dal latino all'italiano ai suoi compagni.

"E' così praticamente tutte le volte che c'è latino. Ormai è una processione. Vengono da me con la mano larga, otto meno cinque tutti in fila, e si passano veloci le mie frasi: il tempo che suoni la campanella e se le sono copiate tutte."

E' da una vita che studio e ho appreso una cosa: se a scuola prendi voti altissimi, sei destinato a passare i compiti alla classe, quasi ogni giorno.
Se invece sei "solo" medio-alto e quindi viaggi più o meno sul sette e mezzo, i compagni non ti chiedono quasi mai i compiti; però, contando sul fatto che sei comunque brava e volonterosa, si aspettano spesso che tu ti offra volontaria nelle interrogazioni. E questo era il mio caso.
Ero brava alle superiori, ma non geniale: avevo nove soltanto in italiano e in storia dell'arte.

Per poter sopravvivere in un ambiente in cui sembra proprio una barca nel bosco, Gaspare, a partire dal secondo anno, inizia a omologarsi. Impara le peggiori parolacce, decide di vestirsi secondo le mode e di studiare poco, si fa regalare un cellulare e qualche volta si ubriaca anche.
Ma questo favorisce l'integrazione all'interno del suo gruppo-classe? No.
Ecco un episodio:

"(...) Chiedo al Seba se viene una volta con me in birreria. (...) E' una specie di sfida, di doppia sfida: andare per la prima volta in birreria, e andarci con il Seba. Lui mi squadra dalla punta dei capelli ai piedi, è pazzesco che io abbia osato chiedergli una cosa simile. Comunque, storcendo leggermente la bocca, mi fa un cenno che io interpreto come un sì. (...) Arrivo in anticipo all'appuntamento. Aspetto un'ora e tre quarti. Non ci voglio credere che il Seba non si faccia vivo, continuo a chiedermi se ho sbagliato il giorno, il luogo o l'ora. Forse, mi dico, quando il Seba ha storto la bocca, non voleva dire di sì. Forse voleva dire che storceva la bocca e basta. Ma io sono nuovo al linguaggio dei segni, sono uno appena nato nel mondo dei branchi, cosa posso saperne? La birra me la bevo da solo. E poi, visto che sono proprio solo e mi sento anche molto solo, me ne bevo altre tre di birre. (...) Sarà che sono a digiuno, ma mi sento lo stomaco andarmi giù fino ai piedi. Vomiterei volentieri. E infatti, vomito. (...)"

E' inutile, a 15 anni il metabolismo (è il termine giusto questo?) di un corpo ancora in crescita non è assolutamente in grado di assimilare l'alcool. Qualsiasi bravata in questi termini ti fa stare male, molto male. E, penso io, non soltanto fisicamente.
E comunque, a che serve omologarsi se non si ottiene l'attenzione dei compagni?

Un altro episodio piuttosto sconcertante è il racconto di una festa di Capodanno in una villa fuori Torino, un intero capitolo di cui riporto soltanto alcune parti:

"Vago tra la gente, mando cenni di saluto più o meno al vuoto e bevo molte birre perché le mani non so proprio come tenerle e una bottiglia in mano può servire. Alle undici me ne sono già fatte tre o quattro di birre e non so più cosa inventarmi. Continuo a vagolare. Intorno gente che si fa di canne e di vino e si avviticchia. (...) Io, fosse per me me ne andrei. ma è la magica notte di Capodanno, vuoi mica perderti la magia. E poi chi mi farà uscire di qui, chissà in quale collina mi trovo e in che pezzo del labirinto, e che madre avrà mai pietà di me e mi darà un passaggio."

"Mi sto assordando di musica fin dentro lo stomaco, anzi, me lo rivolterei come un guanto, lo stomaco, così mi tolgo tutto questo peso che mi ingombra dentro. Esco a prendere una boccata d'aria e di silenzio, saranno dieci gradi sotto zero. Ci sono le stelle. Sul fondo turchese della piscina vuota brancolano decine di corpi, avviticchiati a coppie. Sembrano enormi scarafaggi.
Rientro, e la musica mi riammazza il cervello. Mi sembra ci sia meno gente, ma è solo che si sono rintanati nelle stanze: vomitano, per lo più."

"Tutti se ne stanno andando, con la moto, con l'auto, con qualcuno che li viene a prendere. Vedo qualche 4x4 ferma a rombare sul ciglio della strada. Sarà qualche madre gentile che viene a prendere il figlio. Alle cinque del mattino."

E infine:

"Quando arrivo a casa, mi lavo. Mi faccio una doccia infinita, lascio che l'acqua mi porti via lo schifo. Vorrei diluirmi, sparirci dentro quella doccia."

Gran bella festa, e soprattutto memorabile, dopo tutte quelle bevute!

Ironia a parte, posso dire che le feste fatte di sballo e sbornia mi mettono la malinconia?
Devo ammettere che un paio di volte in questi ultimissimi anni sono andata a feste di questo genere, dove la musica era talmente alta da mandarti il cuore in gola e dove in ogni angolo vedevi bevande alcoliche e gente che limonava, perdonatemi il termine, ma al momento non me ne viene in mente un altro un po' più fine e che al contempo possa rendere bene l'idea.
Allora, io da anni ho serie difficoltà a relazionarmi con i miei coetanei, nonostante abbia sempre cercato di essere gentile e rispettosa.
Sono andata a un paio di quelle feste perché non mi piace il fatto che mi considerino una persona chiusa e altezzosa. Ho un bel po' di difetti, ma questi due proprio no!
E allora ho ragionato così: "Partecipo anch'io, voglio cercare di far capire loro che non sono un mostro farcito di poesia e di letteratura, ma che, in fin dei conti, sono normale e ascolto la stessa musica che ascoltano loro, vedo più o meno i film che vedono loro e mi piacciono anche alcuni programmi leggeri e un po' stupidi in televisione."

Questo non è servito a integrarmi. Innanzitutto perché mi sono sentita  un fiocco di neve caduto dal cielo in pieno luglio sulla riva del mare.
Entrambe le volte, prima di mezzanotte, ho chiamato mio padre per supplicarlo di venirmi a prendere il prima possibile, perché ho anche avuto paura che qualcuno potesse farmi del male da tanto sbronzo che era.
Soltanto in queste poche occasioni ho provato un senso di profonda solitudine.
Feste di quel genere non rendono felice e sereno nessuno, hanno lo scopo di farti sentire più solo, più vuoto e più incompreso di prima. Io non sono e non ero vuota, però mi sono sentita sola in tutti quei contesti che non mi permettevano di parlare con qualcuno.
Non ho mai trascorso il capodanno in discoteca e non ho mai bevuto al punto tale da divenire incosciente di ciò che facevo. I capodanni li ho sempre trascorsi con i miei familiari.

Studio quello che mi piace, ho diversi interessi che coltivo con passione, sogno di pubblicare un romanzo che ho iniziato a scrivere otto mesi fa, ho una vita sociale piuttosto povera dal punto di vista dei rapporti con gli altri giovani e non ho ancora incontrato un ragazzo che voglia amarmi.
Cioè, mi ero illusa di averlo trovato lo scorso anno.
Nonostante ciò, per il momento sono abbastanza contenta. Preferisco passare il sabato sera a casa o a leggere o davanti a un film o a suonare la chitarra piuttosto che in giro tutta la notte a bere e poi a fare chissà che cosa... magari diventare l'oggetto sessuale di uno che è ubriaco quasi quanto me ed essere troppo sbronza io per poter pensare alle eventuali conseguenze.

Ricordate una cosa, voi lettori: ci sono dei momenti e dei periodi in cui posso essere cupa, amareggiata e arrabbiata per dei rapporti di amicizia finiti male, per delle delusioni relazionali; ma voglio continuare ad essere me stessa e sperare di poter essere amata profondamente.


Dopo la maturità, Gaspare si iscrive dapprima a Scienze della Comunicazione.
Insoddisfatto, l'anno successivo cambia facoltà e si iscrive a Giurisprudenza per non fare l'avvocato.
Sembrerà assurdo, ma al ragazzo non interessa quella che sarebbe la professione più coerente con il suo percorso accademico.
In un certo senso, si potrebbe dire che studia Legge per soddisfare le aspettative dei suoi genitori.
Dopo la laurea, ottenuta con il massimo dei voti e la lode, per non entrare nella schiera dei disoccupati che non hanno la minima idea di che cosa fare della loro vita, Gaspare apre un bar.
Il finale è decisamente triste, con le ultime parole pensate dal protagonista e "indirizzate" al padre defunto:

"Forse era meglio se facevo il pescatore come te. Non so se ne saresti stato felice, ma forse era proprio meglio. Tu volevi chissà cosa per me. E invece era giusto così, tutti i miei compagni hanno fatto il mestiere del padre. (...) Ma tu non volevi che io facessi il pescatore. Certe volte, da bambino, mi hai anche nascosto le lenze. Mi dicevi: non le trovi perché sei sbadato, ma io lo sapevo che me le avevi nascoste tu. Chissà cosa mai fantasticavi per me, quali castelli.
Tanto tu non eri un padre che poi mi avrebbe aiutato. Me lo dicevi:adesso che vai a scuola sei grande, devi fare da te, io anche se potessi non ti aiuterei mai. Avevo sei anni quando mi dicevi così, sei anni!
Ma tu parlavi troppo con il mare e non sapevi niente del mondo".

..................................................................................................................................................................

Potrebbe sembrare un romanzo non reale, addirittura irritante per come presenta alunni e professori.
Nessun insegnante ha voglia di insegnare e nessun allievo ha voglia di studiare. Possibile che sia proprio così la realtà? Non è tutto proprio così vero, fortunatamente, nel mio percorso, ho avuto modo di conoscere e di relazionarmi anche con docenti davvero in gamba, sia dal punto di vista didattico che dal punto di vista umano.

A mio avviso, l'autrice non ha voluto descrivere la realtà della scuola, bensì trasmettere un messaggio ben preciso, un messaggio simile a una provocazione. Voleva parlare agli adulti per gli adolescenti, ecco, mettiamola così.

Sostanzialmente, credo che lei volesse comunicare questo: "ci sono dei giovani che hanno dei bei talenti. Sta a noi adulti incoraggiarli e stimolarli affinché li coltivino e li facciano crescere. Noi adulti abbiamo anche il compito di aiutare i ragazzi a sognare il futuro che desiderano. 
Oggi purtroppo c'è molta inconsistenza dal punto di vista culturale e anche dei valori morali. Vogliamo quindi che i giovani pieni di buonsenso e di capacità si adeguino a quella che è la tendenza generale? Vogliamo che loro diventino ciò che non sono per poter sopravvivere alla stupidità?"



Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.