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29 aprile 2018

Due nascite dolorose:


E' da molto tempo che nelle mie riflessioni letterarie non coinvolgo più delle poesie in lingua inglese. Dovrei farlo più spesso! Il tema della nascita però mi consente di farlo: partendo da un componimento del poeta londinese William Blake, vissuto a cavallo tra XVIII° e XIX° secolo, cerco qui di collegare anche l'opera di Leopardi, per poi chiudere con un'altra poesia di Blake dal tono decisamente più gioioso. 

INFANT SORROW:
"My mother groaned! my father wept.
Into the dangerous world I leapt,
Helpless, naked, piping loud;
Like a fiend hid in a cloud. 

Struggling in my father's hands,
Striving against my swaddling bands;
Bound and weary I thought best
To sulk upon my mother's breast."


"Mai madre gemette! Mio padre pianse,
io balzai in questo mondo pericoloso
indifeso, nudo, gridando forte
come un diavolo nascosto tra le nuvole.

Dimenandomi tra le mani di mio padre,
combattendo contro le mie fasce,
legato ed esausto, pensai che fosse meglio
essere scontroso sul petto di mia madre."




L'ho tradotta io, non ho voluto servirmi di altre traduzioni per poterla comprendere bene. 
Parto da una riflessione lessicale. 
Esistono diversi modi per indicare il "dolore" in inglese. Qui sotto li elenco cercando di spiegarne le significative differenze:
1) "ache": solitamente utilizzato per indicare un dolore costante in una parte del corpo. Esempi sono i composti: "headache" (mal di testa), "stomachache" (mal di stomaco) e le espressioni "arm ache" (mal di braccio) e "leg ache" (mal di gamba). 
 
2) "pain": questo vale sia per il dolore fisico che per quello psicologico. Un aggettivo piuttosto frequente che deriva dal presente sostantivo è "painful" ("doloroso"): "I'm having a terrible pain in my eye" ("Ho un dolore terribile all'occhio")/ "Eurydice's definitive loss was painful for Orpheus". ("La definitiva perdita di Euridice fu dolorosa per Orfeo").
3) "grief": Decisamente meno utilizzato rispetto agli altri due, indica nello specifico soltanto il dolore che si prova quando qualcuno se ne va per sempre. "My grandfather passed away six years ago. He was very ill, too ill. My grief was so strong that for almost one year I couldn't  help thinking about him without crying".
4) "sorrow": Questo termine, oltre che nella letteratura, si trova anche in alcune canzoni anglo-americane. E' sinonimo di "sadness", "tristezza". E' il dolore causato da un problema, da una situazione che rende tristi.
Una frase idonea a portare un esempio del suo impiego può essere quella della canzone "Miracle of love": "How many sorrows do you try to hide?" ("Quanti dispiaceri/eventi che ti hanno fatto diventare tristi, più che dolore al plurale, provi a nascondere?")
Il titolo di questa poesia è "Infant sorrow", ovvero "Dolore infantile". Il tormento del bambino appena nato è causato appunto dall'atto di nascere. In questo contesto non è soltanto il bambino appena venuto al mondo a soffrire, ma sono anche i genitori: la madre, a causa delle doglie di un parto naturale, e il padre, che piange. Però quel "wept", passato di "weep", è a mio avviso piuttosto ambiguo. Piange in che senso, quando lo vede nascere? Non si piange soltanto perché si è tristi, ma a volte anche per sollievo o per gioia. Quindi, o questo neo-padre sta piangendo per un senso di sollievo (il bambino è totalmente uscito dal grembo materno, il travaglio del parto per la moglie è concluso), o per la gioia di una nuova vita (non è assurdo, ma all'interno di questo contesto lo trovo improbabile) oppure, cosa abbastanza possibile anche se propendo più per la mia prima ipotesi, perché assiste ad un evento che inevitabilmente fa soffrire la donna che ama compromettendone la vita (due secoli fa almeno era così: molte nascite erano motivo di pianti e di disperazioni per la morte della donna). In questo componimento la nascita, ovvero la "childbirth", è un momento di sofferenza umana, per tutti e tre i personaggi coinvolti.
Notate bene, almeno nella traduzione, che il neonato appare sia come creatura debole ("naked", "helpless"), ma anche come essere dotato di alcune caratteristiche di "forza": "piping loud", cioè il "gridare forte".
Mi dicono dalla regia che quando sono uscita dall'utero ho subito voluto far capire a medici e ostetrica che i miei polmoni e le mie corde vocali funzionavano perfettamente, perché ho urlato un sacco, proprio come William Blake. Però, non potevo stare con mia mamma: pur non essendo prematura, ero decisamente più piccola e più magra di quello che ci si aspettava, e quindi per qualche giorno sono stata nella stanza delle culle termiche.
E a proposito di temperatura, mi hanno sempre detto che il 26 settembre del '95 era stata una giornata calda, con sole e punte di 30° gradi, roba ancora da lungomare insomma. Due notti dopo la mia nascita, c'era stato un forte temporale. Scherzetti di settembre, di fine estate: le temperature calde ci sono ancora, ma non durature come quelle di luglio-agosto.
E' molto forte la similitudine : "come un diavolo nascosto in una nuvola". Penso che indichi lo spaesamento del bambino appena venuto alla luce, in un mondo enorme, pieno di pericoli e di insidie, in un mondo che sarà sempre e comunque troppo grande per lui, impossibile da conoscere interamente. E il petto della madre sembra il luogo più sicuro in cui stare. 
Io è da anni che mi faccio una domanda piuttosto delicata: se sei madre è automatico e spontaneo amare i tuoi figli? Più cresco più mi rendo conto che non sempre è un sentimento viscerale e "secondo le leggi della natura". Pensate alla situazione di Antoine Doinel nel film di Truffault, ad esempio. Ci sono certe st**z*e che non hanno e non avranno mai idea di cosa significa essere madri e crescere dei figli, crescerli non soltanto nel senso di dar loro cibo e un tetto dove abitare. Crescerli nel senso di ascoltarli, dar loro delle regole, renderli consapevoli dei propri limiti, amarli, impegnarsi e far del proprio meglio perché diventino delle buone persone. Non tutte le madri vogliono bene ai loro figli. Non è così scontato, purtroppo. Se lo fosse, credo che in questo mondo non esisterebbero freddezza, insicurezze, immaturità e odio. Cioè, se la cosa fosse ovvia, si vivrebbe in un mondo certamente migliore. Invece  purtroppo ci sono anche delle madri che se ne fregano altamente della loro prole.
Come affermava Pasolini, un grande intellettuale di vera sinistra, nei suoi "Scritti Corsari" (io lo cito indirettamente, secondo quello che ho assimilato per l'esame di Letteratura Italiana 3): "Il coito, che può comportare il concepimento, deve implicare un senso di responsabilità, perché abortire significa uccidere".
Il contenuto di questo breve poemetto mi ha richiamato alla mente la terza strofa del "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di Leopardi. Praticamente, in questo componimento il narratore è, in prima persona, il pastore che, dopo una giornata di duro lavoro, la notte, davanti alle stelle e ad una luna che gli appare indifferente di fronte alle sofferenze umane, esprime il suo lamento.

TERZA STROFA, "CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA" 
(vv 39-60):

"Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale."

Anche Leopardi ammette che la nascita di ogni individuo avviene mediante un travaglio. E' un trauma, la nascita: da un piccolo mondo interno in cui si era protetti si passa a un mondo esterno. La natura ha un'enorme pretesa verso i bambini, della serie: "Bene, per nove mesi sei stato al sicuro e in stretta simbiosi con un genitore e ora esci, staccati e respira da solo".
Qui però, Leopardi, al contrario del poeta inglese, mette l'accento sull'importanza del ruolo genitoriale: coccolare, sostenere, consolare per alleggerire l'iniziale ed enorme peso dell'esistenza. La vita non è soltanto dolore, ci tengo a precisarlo ora: il nostro poeta vuol dire anche che madre e padre hanno il compito di valorizzare tutto ciò che di bello e di positivo esiste nella vita del loro figlio e di farglielo notare, di far diventare visibile "un essenziale che ci fa vivere".
Negli ultimi versi della strofa però, Leopardi cambia tono: perché si ritrova influenzato dalla sua esperienza di vita personale: madre anaffettiva, padre rigidissimo, spendaccione e probabilmente anche fedifrago. Varie esperienze al di fuori di Recanati, ma nessuna realmente gratificante, nessuno che abbia saputo valorizzarlo per il gran genio che era.
La luna è un elemento della natura che appare cieca e sorda di fronte alla miseria del mondo. Leopardi la definisce addirittura "intatta", vergine, quindi assolutamente ignara.
Non è più la "graziosa luna" dell'idillio "Alla luna", capace di accogliere la sua tristezza e di ascoltarlo. 

Concludo con un altro componimento di Blake, sempre relativo alla nascita, ma di tutt'altro tono:

" 'I have no name:
I am but two days old.’
What shall I call thee?
‘I happy am,
Joy is my name.’
Sweet joy befall !

Pretty joy!
Sweet joy, but two days old.
Sweet joy I call thee:
Thou smile,
I sing the while,
Sweet joy befall thee!"


Non ho alcun nome:
ho solo due giorni.”
Come vuoi che ti chiami?
Io sono felice,
Gioia è il mio nome.”
Dolce gioia ti tocchi!
Cara gioia!
Dolce gioia, ma di soli due giorni,
dolce gioia ti chiamo:
tu sorridi,
io canto ancora
dolce gioia ti tocchi."


Notate bene che, mentre la precedente poesia di Blake era piena di verbi al passato, questa potrebbe tranquillamente essere messa in musica, perché dotata di diverse ripetizioni di suoni e di parole: notate ad esempio l'anafora di "sweet joy" ai versi 8 e 9, "befall" alla fine sia della prima che della seconda strofa.

Questo testo contiene delle forme arcaiche: "thee" per "te", "thou" per "tu" e "dost" per "do", famigerato ausiliare frequentissimo, oggetto di parecchie verifiche di grammatica a scuola. Ma d'altra parte, non essere in grado di formare domande in inglese con "do" equivale più o meno a non saper utilizzare il presente indicativo italiano.
Si è evoluta di un bel po' anche la lingua inglese e, secondo me in meglio, perché si è semplificata. L'inglese del Trecento (brutto, ridondante e infatti è per questo che ho odiato Jeoffrey Chaucher ) è ben diverso da quello del Cinquecento e l'inglese del Settecento, per certi aspetti, è un po' lontano dall'inglese contemporaneo. Me ne sono resa conto quando preparavo il mio primo esame di linguistica.
Allora, differenza sostanziale rispetto all'altra poesia: qui non è narrato o ricordato il momento della nascita, qui il bambino ha già due giorni ed è gioioso, affamato di vita.
E' un componimento dal carattere arioso, è un dialogo tra il bambino piccolo e il poeta che condivide la sua gioia di esistere. 
Puntualizzando sul fatto che è impossibile che un bambino così piccolo parli, è utile spiegare che non si tratta di una creatura precocemente sviluppata che il poeta ha incontrato nella vita reale. Blake vive proprio nel periodo in cui nasce il movimento culturale del Romanticismo, diffusosi dapprima in Europa settentrionale, ovvero, in Inghilterra e in Germania. I poeti e gli artisti romantici odiavano le convenzioni sociali e amavano, oltre che la libertà dell'arte creativa, l'anticonformismo nei comportamenti, la trasgressione delle norme sociali , avvertite come pesanti e opprimenti. 
E' probabile quindi che questo bambino, chiamato "gioia", sia felice perché libero e ancora incosciente delle convenzioni e delle strutture sociali.
"Dolce gioia ti tocchi" è un augurio stupendo. D'altra parte, soltanto coloro che veramente ci amano possono augurarci una vita serena, costellata di gioie e di soddisfazioni.

13 aprile 2018

Ettore e Andromaca, l'amore vero (II):

Proseguo le mie traduzioni e le mie riflessioni sull'episodio letterario dell'incontro tra Ettore e Andromaca.
Ritengo giusto però fare un riepilogo sulla parte analizzata venerdì scorso: ad Ettore corre incontro la moglie Andromaca, seguita da una serva che tiene suo figlio in braccio. E' decisamente angosciata, poverina: già reduce di un passato orribilmente tragico, vorrebbe che il marito rimanesse con lei anziché ritornare in battaglia. Quella mia traduzione "Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata di te privata, sprofondare sotto terra" non è molto letterale. E' una frase che ho un po' interpretato, perché Marcello Campolongo traduce semplicemente "Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata privata di te, morire". Io invece ho voluto proprio cercare di rendere nel miglior modo che potevo la disperazione di una giovane moglie e madre impossibilitata a confidare in un futuro felice.
Campolongo continuava poi la traduzione del periodo così: "poiché per me non ci sarà più altro conforto"; e io invece ho fatto in modo completamente diverso: "per me non ci sarà nessun altro che potrà mantenermi in vita con il proprio calore umano." C'era una parola nel testo originale greco, θαλπωρὴ (zalporè), che come primo significato ha "calore". Per questo istintivamente ho pensato al calore umano, a quell'impagabile calore umano che soltanto un uomo dolcissimo ma al contempo molto forte e capace di amare con tutto se stesso ti può dare.
Mi sono fermata al verso numero 439, ora riprendo dal 440. Questa seconda parte verte soprattutto sulla risposta di Ettore.

VV. 440-465:

Vaso greco a figure rosse: Ettore, Andromaca e Astianatte
Allora le disse il grande Ettore dall'elmo abbagliante: " Tutto questo mi preoccupa, moglie mia, ma mi vergognerei terribilmente di fronte ai Troiani e alle Troiane dai lunghi pepli se come un inetto mi tenessi lontano dai combattimenti; né il mio animo può indursi a ciò, dopo che, essendo consapevole della mia grande lealtà e del fatto che io ho sempre combattuto nelle prime file dell'esercito con i Troiani; ho cercato di ottenere una grande gloria sia per mio padre sia per me stesso. Io infatti conosco tutte le tue innumerevoli sventure e le tengo quotidianamente nella mente e nell'animo: verrà un giorno, quando la sacra Ilio verrà distrutta e con essa perirà Priamo e il popolo dalla buona lancia. Ma non mi preoccupa tanto la tragica sorte dei Troiani, né mi preoccupo per la stessa Ecuba né per Priamo sovrano né per i miei fratelli, che pur essendo molti e valorosi cadranno nella polvere sotto i piedi dei nemici, quanto piuttosto sono angosciato per te, quando qualcuno tra gli Achei dalla corazza di bronzo ti trascinerà via piangente, privandoti così della libertà. E vivendo ad Argo tesserai il telaio per un'altra e porterai acqua dalla fonte Messeide o dell'Ipereia, controvoglia. Un grave destino ti opprimerà e qualcuno, nel vederti in lacrime, dirà: "ecco l'amata donna di Ettore, che era il migliore a combattere fra i Troiani domatori di cavalli, quando combattevano ad Ilio." Così qualcuno ti dirà, e per te il dolore sarà raddoppiato, a causa della mancanza dell'unico uomo che avrebbe potuto proteggerti ogni giorno dalla schiavitù. Ma la terra versata sopra il mio cadavere possa coprirmi prima che io senta le tue urla disperate."

Preciso ancora che Ilio è il nome greco per la città di Troia.
E' proprio quando leggo questo punto del loro dialogo che scoppio a piangere. 
Cioè, gli tocca tornare in battaglia e dire addio alla moglie per colpa delle convenzioni sociali e militari vigenti nella Grecia arcaica... Gli tocca morire e lasciare che Andromaca venga catturata e ridotta in schiavitù da qualche acheo. 
Ma perché riesco a immedesimarmi così tanto nel dolore dei personaggi dei libri che leggo e che studio?
Comunque, quel che soprattutto mi chiedo è: se Omero (ammesso sempre che sia davvero esistito) avesse deciso di far rimanere Ettore all'interno della città con la moglie e il figlio, cosa gli sarebbe successo?? Innanzitutto, credo che come minimo i Troiani lo avrebbero fatto allontanare dalla città. 
E sarebbe stato oltremodo disonorevole, dal momento che egli era il principe di Troia, valorosissimo combattente. Ma i Troiani, con o senza Ettore, avrebbero comunque perso la guerra. 
La vittoria achea era già stata prestabilita da alcune divinità, come Atena.
Nella Grecia arcaica l'uomo non può far nulla contro il destino.
Deve solo accettarlo, non deve affatto pretendere di poterlo cambiare o di poter posticipare la morte. Deve accettare di essere sottomesso a degli dei che governano non soltanto il mondo ma anche le vite dei mortali.

In questo discorso Ettore sembra più un profeta che un guerriero: predice la schiavitù della giovane moglie, la sconfitta troiana, la morte dei fratelli, la rovina di suo padre Priamo, re di Troia.
D'altra parte dovete pensare che "profeta" deriva da due parole greche: dalla preposizione "πρό" (pro), "prima" e dal verbo "φαìνω" (fàino), "manifestarsi, apparire." Il profeta "vede" ciò che accadrà in futuro, e lo scorge prima degli altri. L'avvenire quindi, gli appare chiaro nella mente ancora prima che divenga presente.
L'epifania, la cui ricorrenza cade sempre il 6 gennaio, è anch'essa una manifestazione. Però, poco prima di φαìνω c'è la preposizione "ἐπί" (epì), "davanti". L'epifania è la rivelazione della venuta al mondo di Gesù ai re magi, nobili ed eleganti stranieri che hanno modo di stargli dinanzi mentre lo visitano e lo onorano con i loro doni. E inoltre, il dono di Dio all'umanità si manifesta dinanzi a loro.
Ma ciò che preoccupa maggiormente Ettore è proprio il tristissimo destino di Andromaca: la sconfitta troiana distruggerà inevitabilmente la famiglia e il nido d'amore che con lei ha costruito. E' questa la spina molto appuntita che ferisce il cuore dell'eroe: l'umiliazione di Andromaca, che da principessa diverrà una serva.
Ettore le dice: "... per te il dolore sarà raddoppiato a causa della mancanza dell'unico uomo che avrebbe potuto proteggerti ogni giorno dalla schiavitù". 
La parola per mancanza in greco omerico è χῆτος (chètos). Però questo è un nominativo singolare, mentre nel testo c'è il dativo singolare χήτεϊ (chètei). Da cui anche il verbo χατω (catèo), "mancare, aver bisogno".

Se uscite da uno scientifico, da un linguistico o da un classico sicuramente ricordate che il latino ha sei casi, e che l'ablativo corrisponde a molti dei complementi indiretti italiani (causa, fine, mezzo, strumento, modo, tempo). In greco antico l'ablativo non esiste, perché tutte le sue funzioni le assolve il dativo. E questo è un dativo di causa: "soffrirai per la mancanza", si poteva anche tradurre.
Quindi, è come se il marito le dicesse: "Sentirai il bisogno di avermi al tuo fianco, ma io non ci sarò più. E la tua vita con me non potrà mai più essere rivissuta."
Oltre a perdere la sua condizione di donna nobile e libera, Andromaca soffrirà il dolore della perdita e la nostalgia. Sapete da dove deriva il termine "nostalgia"? Da due parole greche, e questo ce lo insegna l'Odissea: "νόστoς" (nòstos) "ritorno" + "ἄλγος" (àlgos), "dolore". Dunque, il dolore causato dal desiderio di ritornare in un luogo in cui non sei e in cui magari hai lasciato tutti i tuoi affetti e i tuoi legami familiari. I nostri immigrati provano "il dolore causato dalla distanza e dalla lontananza", un dolore che quasi quasi ti fa venire voglia di ritornare per riabbracciare i parenti che hai lasciato. Come Remòn, nel libro della Barra. Ma non puoi tornare giù nella miseria, perché sei in cerca di una vita economica più dignitosa.
"Mancanza" e "nostalgia" sono sinonimi? Più o meno. Anzi, dipende dai contesti. La prima parola indica il bisogno di qualcuno o di qualcosa, la seconda invece fa riferimento più a uno stato psicologico di tristezza collegata a un desiderio.
Se ho scritto che la somiglianza tra "mancanza" e "nostalgia" dipende dai contesti è perché bisogna considerare queste differenze:

A1) "Mi manca mia mamma". = Ho bisogno di parlare con una persona che in questo momento non c'è  .
A2) "Mi manca un ombrello". = E' molto nuvoloso qui fuori, mi trovo all'aperto, è probabile che cominci a piovere ma non ho portato l'ombrello e ne avrei bisogno.
 
B1) "Ho nostalgia di casa". = vorrei essere dove non sono ora. Mi manca questo ambiente.
B2) "La nostalgia dell'infanzia è tipica di molti" . = Se potessi avere una macchina del tempo, tornerei volentieri indietro all'epoca delle elementari e delle medie, per quel che mi riguarda.

C'è una tragedia di Euripide, intitolata proprio "Andromaca", in cui la giovane donna risulta la protagonista: vedova e privata del figlio, si trova nella condizione di concubina a casa di Neottòlemo, guerriero acheo. Da Neottòlemo ha avuto un altro figlio. Neottòlemo non la tratta mai male, anzi la ama più di come ama sua moglie Ermione, bellissima figlia di Elena ma sterile. Però il dramma sta soprattutto nel fatto che Ermione odia Andromaca, al punto tale che progetta di ucciderla.
"Ma la terra versata sopra il mio cadavere possa coprirmi prima che io senta le tue urla disperate."
Ettore ama talmente tanto sua moglie che desidera essere seppellito ancora prima di sentire il suo pianto disperato.  E così poi, nel ventiquattresimo e ultimo canto dell'Iliade, avviene. 
Priamo si reca alla tenda di Achille per ritirare il cadavere di Ettore, in modo tale da poter celebrare una cerimonia funebre con il suo popolo. Dopo averlo ottenuto, lo fa trasportare in città. E anche qui troviamo Andromaca che parla al cadavere piangendo: " Oh sposo, troppo giovane lasci la vita e me vedova nella tua casa abbandoni: non parla ancora il bambino che generammo tu ed io, disgraziati, e non penso che verrà a giovinezza, Prima la città intera sarà distrutta, perché tu sei morto, il suo difensore, tu che la proteggevi, salvavi le spose e i figli piccoli." (...)

Compianto sul corpo di Ettore
Ettore ama Andromaca con tutto se stesso, eppure loro due, forse poco più che ventenni, non hanno più futuro insieme. Perché guerra, odio, violenza e crudeltà del destino li divide. 
Anche in questa parte del dialogo compare il concetto di κλέος (clèos), ovvero; gloria, fama, notorietà. La notorietà che si ottiene nell'affrontare con ardimento le battaglie, per farsi onore di fronte ai propri compagni d'esercito. La κλέος εὐρύ (clèos eurù) è "la fama larga e diffusa".

Facciamo ora una breve riflessione linguistica sul punto in cui Ettore dice: "un grave destino ti opprimerà".  Per "destino" qui c'è la parola ἀνάγκη (anànche), derivata dal verbo ἀναγκάζω (anancàzo), il cui primo significato è "costringere"
Ci sono diversi termini in greco antico che indicano la sorte e il destino, ma tutti quanti costituiscono delle diverse sfumature di significato. 
Aνάγκη contiene la sfumatura di "costrizione, destino ineluttabile". E in questo contesto è dunque una parola molto idonea perché allude al probabile destino di Andromaca: in condizione di schiavitù una persona vive nella costrizione di dover fare delle cose che, se fosse libera, non farebbe di certo. 
Le schiave dei guerrieri non erano soltanto dedite alla tessitura e ai lavori domestici, ma abbastanza spesso venivano anche costrette a rapporti sessuali con il loro padrone. 
C'erano casi in cui il padrone si innamorava davvero di loro, e altri invece in cui si divertiva a opprimere e a violare la loro corporeità. In fin dei conti, le "parentele a cespuglio" esistevano già alcuni secoli prima di Cristo. Gli uomini greci potevano servirsi sessualmente di tutte le donne che volevano: della moglie (molto spesso una ragazzina), delle schiave, delle prostitute. E risultavano dunque spesso"pieni di figli".

C'è un epiteto curioso all'inizio del discorso di Ettore, attribuito alla componente femminile della popolazione troiana: "Troiane dai lunghi pepli ".  
Il peplo era il tipico abito femminile dell'epoca. Lo testimonia anche la statuaria greca:

La κόρη (kòre), in greco, è la "ragazza giovane, nel fiore degli anni". Le κόραι (kòrai),  plurale, nella scultura del VII° secolo a.C., erano sempre raffigurate frontalmente, con capelli lunghi pettinati a piccole trecce e con un peplo aderente alla forma fisica.

VV. 466-481:

Dopo aver detto questo il glorioso Ettore tese le braccia verso il bambino ma l'infante si ritrasse gridando sul petto della balia dalla bella cintura, dal momento che l'aspetto del padre lo impauriva, e temeva il bronzo e il cimiero dalla equina criniera, che vedeva ondeggiare spaventoso dalla cima dell'elmo. Il caro padre rise teneramente e anche la nobile madre e subito dal capo il fulgido Ettore si tolse l'elmo, lo depose a terra tutto risplendente e poi baciò il caro figlio e dopo che lo sollevò tra le braccia disse, invocando Zeus e tutti gli altri dei: "Zeus e tutti gli dei, fate in modo che questo mio figlio cresca così come me, il più valoroso fra i Troiani, così,  forte e valoroso e regni su Ilio e qualcuno possa dire un giorno: "è molto più valoroso del padre", quando tornerà dalla battaglia. Porti egli le spoglie d'armi cruente del terribile nemico abbattuto, e l'animo della madre si rallegri nell'udire e nel vedere ciò".

Ora magari vi chiederete: ma se un attimo prima ha predetto distruzioni, morti e rovine, perché ora si augura che suo figlio cresca e divenga valoroso e coraggioso in battaglia? 
L'animo umano è complicato, ma credo che Ettore pronunci questo augurio a causa di un attimo di serenità e di ottimismo che l'innocenza del figlioletto gli infonde, quell'innocenza incontaminata dalla guerra che non ha ancora consapevolezza della morte.
Per un padre, per un vero padre; il figlio è il futuro della famiglia, è la creatura che nei primi anni di vita va protetta ed educata per assicurarle un avvenire il più possibile sereno.
L'espressione: "ἐκ δ᾽ ἐγέλασσε" (èx d'egèlasse) significa "e ne rise". Il "teneramente" l'ho aggiunto io. Perché effettivamente fa tenerezza un bambino molto piccolo che mostra reazioni di spavento di fronte alla figura tutta ricoperta da elmi e armature.
E anche questo punto del canto sesto è molto dolce e lo rende tale il dativo plurale χερσὶν (chersìn) da χείρ (chèir), "mano". Qui andavano bene sia "lo strinse tra le mani" sia "lo sollevò tra le braccia".

L'eroe si augura che il figlio divenga re di Troia e che possa essere un combattente di grande abilità e valore, ammirato da tutti.
In realtà, purtroppo non avviene così: Astianatte, poco dopo la fine della guerra, viene gettato giù dalle mura di Troia, mentre la madre viene caricata su una nave con le altre donne troiane, dirette verso un paese in cui saranno soltanto schiave. Il nome del bambino, che tradotto dal greco all'italiano significa "signore della città", sembra quasi un nome dato per antìfrasi: il suo significato non corrisponde al suo destino e al suo essere.

VV. 482-496:

Dopo aver parlato così, mise tra le braccia dell'amata sposa suo figlio: lei lo strinse al petto per farlo addormentare, sorridendo tra le lacrime; il marito si intenerì nel guardarla, con una mano la accarezzò e le disse: "Poverina, non angosciarti troppo per me nel tuo animo: nessuno infatti potrebbe gettarmi nell'Ade contro il volere divino; io penso sicuramente che nessuno tra gli uomini possa sfuggire alla morte, né il vile, né il valoroso, una volta nato. Ma ora ritorna a casa e attendi alle tue faccende, al telaio e al pennecchio e ordina alle ancelle che anch'esse si mettano al lavoro; la guerra è cosa da uomini, soprattutto mia.
Dopo aver detto ciò il glorioso Ettore riprese l'elmo dalla coda equina; mentre la sua amata sposa si dirigeva verso casa voltandosi spesso indietro, e continuando a versare molte lacrime.

Notate intanto che ho evidenziato il gesto di affetto dell'eroe verso la moglie. Questo perché non credo sia stato l'unico in tutto il dialogo tra di loro. La letteratura e l'epica sono finzioni: sono resi bene i sentimenti umani e la psicologia interiore ma c'è sempre qualcosa che manca in un racconto. Mai è resa perfettamente bene la realtà delle relazioni in un'opera letteraria, ci sono in ogni caso dei dettagli o dei particolari importanti omessi, non specificati. Proprio come questi.
Non credo che questo dialogo sia avvenuto in modo lineare come qui è riportato, senza interruzioni di abbracci.
La parola che Ettore pronuncia per definire la moglie "poverina!" è di nuovo "δαιμονίη", come lei, all'inizio del dialogo, aveva detto ad Ettore. Ma qui le uniche traduzioni possibili sono "sventurata" e "infelice". Io ho preferito il "poverina", per attribuire all'eroe l'esternazione della compassione verso di lei.
Per "morte" qui c'è la parola "μοῖραν" (mòiran), all'accusativo singolare. La μοῖρα è letteralmente, sul dizionario "la parte di vita assegnata a ciascun essere umano".
Le tre Moire, figure mitologiche greche, erano divinità che costituivano delle personificazioni del destino ineluttabile. Il loro compito era tessere il filo del destino di ogni uomo, svolgerlo ed infine reciderlo segnandone la morte.
Nella variante del greco attico, per "parte, porzione" è molto più diffuso il termine μέρος (mèros).

Bene, questi erano 104 versi tradotti e commentati...  
Non ancora del tutto soddisfatta di questo gran lavoro che ho revisionato più volte prima di copiare qui, ho voluto attribuire in greco degli aggettivi che definissero bene il carattere dei due protagonisti di questa parte. Per poterlo fare, ho inserito una tabella:





ETTORE


Ἀγαθός
(agatòs)
“buono”
Ἀνδρεῖος
(andrèios)
“coraggioso, valoroso in battaglia”
Μεγαλόθυμος
(megalòtimos)
“di animo generoso”


ANDROMACA


Πιστή
(pistè)
“fedele”
Καθαρή
(katarè)
“limpida e pura nei suoi sentimenti”
Αἰσθητική
(aistetichè)
“sensibile, madre tenera”.



6 aprile 2018

Ettore e Andromaca: l'amore vero (I):

Il dialogo d'addio fra Ettore e Andromaca si trova nel sesto libro dell'Iliade, dal verso 392 al verso 496. E' una sezione letteraria decisamente lunga, ma, dal momento che a mio avviso merita una lettura con commento, ho deciso di suddividerla in due parti: stasera mi concentro sui versi da 392 a 439, la settimana prossima parlerò dei rimanenti.
Ho ritenuto opportuno inoltre risparmiarvi il testo originale greco. 
La traduzione italiana di questa parte però è tutta mia e in certi punti non è molto letterale, anche perché si tratta di uno dei miei passi preferiti dell'Iliade, quindi ci ho messo molto cuore.

VV. 392-403:

"Quando, dopo che ebbe attraversato la grande città, giunse alle Porte Scee da cui si apprestava ad uscire verso la pianura, qui la moglie dai molti doni gli giunse dinanzi correndo, Andromaca, figlia del coraggioso Ezione che abitava al di sotto del Placo selvoso, Tebe Ipoplacia, che regnava su uomini della Cilicia; sua figlia era andata in sposa a Ettore dall'elmo di bronzo. Lei dunque gli andò incontro, e con lei andava l'ancella stringendo tra le braccia il bambino innocente, tuttora infante, figlio di Ettore amabile, simile a una fulgida stella. Ettore lo chiamava Scamandrio, invece gli altri Astianatte: infatti Ettore difendeva Ilio da solo."
 
"πολύδωρος" (polìdoros): significa "ricca di doni". Questo aggettivo lo si può intendere in vari modi, che qui elenco: economicamente, Andromaca sicuramente era benestante, figlia di un re, e dunque, disponeva di una dote ricca. Però la parola potrebbe anche riferirsi alle sue qualità esteriori e interiori: bella, sensibile, amabile e fedele. A me però piace pensare anche ad un altro senso da attribuire a πολύδωρος, ovvero, quello di "doni meravigliosi ricevuti dal marito, quali un sincero amore coniugale e il figlio".

"ἀταλάφρονα" (atalàfrona) è un composto, da ἀταλός (atalòs)= innocente + φρὴν (frèn)= mente.
Letteralmente dunque porta il significato di "mente innocente", quindi una "mente che non sa pensare al male". Adelaide Antici, madre di Leopardi, in un'epoca (inizio XIX° secolo) in cui la mortalità infantile era ancora spaventosamente alta, riteneva assurdo che i genitori piangessero la morte dei figli bambini, dal momento che "i bambini sono morti da creature innocenti, meglio dunque che siano andati in Paradiso prima di conoscere il male che corrompe l'anima umana". 
Capite bene ora il motivo per cui Giacomo era ateo... con una madre così cattolicamente ignorante e anche parecchio bigotta, tutti lo diventerebbero.

Forse vi starete chiedendo come mai Ettore avrebbe dovuto soprannominare un figlio così piccolo con un appellativo così strano come "Scamandrio". Io so che lo Scamandro era un fiume che scorreva nelle pianure vicine a Troia (Ilio per l'epica, da cui il titolo "Iliade").
Il soprannome Astianatte invece, composto che racchiude le parole italiane signore e città, dunque dall'italiano al greco omerico: ἄναξ (anax) + ἄστυ (àstu), avrebbe costituito una sorta di augurio per l'avvenire del bambino: i Troiani si auguravano che diventasse valoroso e forte come lo era il padre. 

VV. 404-420:
 
 "Invero Ettore, volgendo lo sguardo in silenzio verso il bambino, sorrise dolcemente; ma Andromaca gli si pose vicino versando lacrime, gli strinse la mano, gli parlò chiamandolo per nome: "Cattivo! Il tuo coraggio ti ucciderà, non hai compassione né del figlio ancora bambino né di me sventurata che presto sarò vedova, presto infatti tutti gli Achei ti faranno a pezzi dopo averti assalito. Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata privata di te, sprofondare sotto terra; infatti per me non ci sarà nessun altro che potrà mantenermi in vita con il proprio calore umano dopo che tu avrai seguito il tuo funesto destino di morte, ma soffrirò un terribile dolore: a me non sono rimasti né il padre né la nobile madre. Il divino Achille uccise mio padre, distrusse completamente la città dei Cilici che era ben abitata, la Tebe ben fortificata; uccise Ezione ma non lo spogliò delle armi; infatti temeva in cuor suo; ma lo bruciò con le sue armi ben lavorate ed innalzò una tomba: attorno ad essa le ninfe montane, figlie di Zeus Egìoco, piantarono olmi."

 "μείδησεν" (mèidesen), passato remoto di μείδάω (meidào). Eccolo qui il verbo per "sorridere dolcemente". La tenerezza di Ettore si manifesta con il volto, non con i gesti. Non è quindi plateale, ma contenuta.
Credo che sorridere dolcemente di tenerezza sia una delle cosa più straordinarie che un ragazzo o un uomo possano fare di fronte a una donna. Questo "sorriso tenero" è un qualcosa che, per una frazione di secondo, ti fa dimenticare il male e la cattiveria che ci sono nel mondo.

"δαιμόνιε!" (daimònie), l'ho già spiegato il 19 marzo, può essere tradotto con "cattivo", "infelice" o "sventurato". Vanno bene tutti e tre, dipende dal taglio che gli si vuole dare. Io ho scelto la prima, perché mi sono immedesimata nel ruolo della donna addolorata: "Sei crudele, perché pensi a fare l'eroe mentre è molto probabile che io rimanga vedova e nostro figlio orfano. E noi abbiamo bisogno di te!"
Ma d'altra parte, Ettore poteva davvero evitare di ritornare in campo? Per la mentalità socio-culturale dell'epoca era impensabile, era oltremodo vergognoso! Era meglio morire piuttosto che rifiutarsi di combattere!!
Se io dovessi re-inventare l'Iliade, certamente Ettore non morirebbe all'interno della mia narrazione. Sarebbe simile ad un eroe romantico dell'Ottocento che mette l'amore e gli affetti familiari prima di tutto il resto. Insomma, sarebbe uno che fuggirebbe via dall'inferno della guerra e della violenza caricando se stesso, la moglie e il figlio su una nave diretta in Africa Settentrionale, senza minimamente temere castighi divini. Questo, che io e voi denomineremmo come un comportamento romantico e conveniente per la propria incolumità, per i Greci antichi sarebbe stato egoismo e codardia.
Un po' di filologia greco-latina non fa male nemmeno a voi lettori, comunque.
Vi faccio notare un particolare interessante, sempre relativo a questa esclamazione: "δαìμων" (dàimon), in greco è "il demone, la divinità ostile e vendicativa". E' proprio da qui che deriva l'italiano "demonio".
Anche il nostro "diavolo" è un derivato dal greco, ma dal verbo "διαβάλλω" (diabàllo), "dividere, separare".
Il diavolo è creatore di discordie. Colui che è posseduto dal diavolo "divide" moralmente e psicologicamente le persone di un gruppo, e dunque è cattivo. Cattivo viene dal latino "captivus"
participio passato mi sembra di "capio" , "prendere". Il mio manuale di antologia italiana dice esattamente che in epoca cristiana il "captivus" era il "prigioniero del diavolo"= "Captivus diaboli".

"Mένος" lo si può intendere in diversi modi. Certo, qui ci sta bene il significato di "coraggio, ardore". Però Archiloco, nei suoi poemetti un pochino sconci, lo ha fatto diventare anche sinonimo di σπέρμα
La mia immaginazione mi ha fatto collegare questi due termini: se gli anni della giovinezza o comunque della giovane età adulta (la fascia di età 20-45) sono quelli che dovrebbero rappresentare l'apice delle energie fisiche, mentali e inoltre sono anche il periodo più opportuno della vita per generare, allora è molto chiaro che Andromaca non vede Ettore soltanto come un guerriero forte e un eroe glorioso per la città. 
E' ben consapevole di questo, certamente, ma vede in suo marito oltre che uno sposo anche un buon padre. Ettore è ancora giovane, potrebbe vivere più a lungo e darle altri figli e quindi altra gioia.

Questo secondo me è il pensiero di Andromaca: 

"IO NON HO NESSUN ALTRO. Quando morirai resterò sola, incompresa nel mio dolore, con un figlio di pochi mesi a carico. Sarò sola senza il mio scudo, la mia forza, il mio amore, il mio respiro, il mio tutto. E nessuno potrà comprendere il mio enorme dolore. Finirò schiava di qualche Acheo, e mio figlio non me lo lasceranno nemmeno tenere, lo uccideranno."

Per Andromaca Achille è un assassino spietato e crudele: nel paragrafo successivo vedremo inoltre che egli, oltre a uccidere il padre di Andromaca ha massacrato anche i suoi sette fratelli. Mentre dunque nel primo libro dell'Iliade potremmo anche scorgere una parvenza di ragionevolezza e di apprensione per il popolo acheo (Achille, in seguito allo scoppio della grave epidemia nel loro campo, desidera che Agamennone convochi una riunione tra guerrieri per capirne le cause), qui invece scopriamo tutto il suo lato negativo: combattere al fine di annientare e sterminare il nemico e al fine anche di portare dolore tra i pochi superstiti.
D'altra parte, il nome Achille contiene la parola ἄχος (àcos), dolore. Achille è portatore di dolore.

 VV. 421-439:

Andromaca prosegue il discorso.

  "I miei fratelli erano sette all'interno del palazzo; tutti in un solo giorno scesero nell'Ade, tutti li uccise il divino Achille piè veloce, presso i buoi dalle zampe contorte e presso le bianche pecore. Mia madre era regina sotto il Placo selvoso, dopo che la rapì con altre ricchezze; ma poi la liberò dopo aver accettato un enorme riscatto. Ma una volta ritornata nella dimora paterna, Artemide saettatrice la colpì. Ettore, tu sei per me padre e nobile madre e fratello, tu sei il mio fiorente sposo.
Ora dunque abbi compassione di me e di nostro figlio, rimani qui sulla torre; non rendere orfano il bambino e vedova tua moglie. Ferma l'esercito al caprifico, là soprattutto la città è accessibile e le mura sono più facili da scalare. Per tre volte dopo essere giunti in questo luogo lo hanno tentato i migliori compagni dei due Aiaci e di Idomeneo illustre, compagni degli Atridi e del forte figlio di Tidèo, sia che di ciò li abbia informati qualcuno che conosce gli oracoli, sia che il loro animo li spinga e li guidi."

In questa parte di testo, il luogo degli Inferi, ovvero, l'Ade, è indicato con il genitivo Ἄϊδος (=àidos).
Ade è sovrano dell'invisibile, ovvero, di ciò che nessun umano può conoscere prima di morire.
Nessun antico greco poteva conoscere l'aldilà, immaginato per lo più come cupo e tenebroso.
Oggi, nessuno di noi cristiani può fornire una descrizione esatta e precisa del Paradiso.
Diversi letterati italiani del Medioevo ne hanno dato delle descrizioni e delle rappresentazioni. Pensate a Dante: la Terza Cantica della Commedia (Boccaccio, che per tutta la vita lo ha profondamente ammirato, ha aggiunto l'aggettivo "divina") è intitolata il Paradiso. Per Dante il Paradiso è formato da nove cieli, rappresentati nei disegni come dei cerchi concentrici; in ognuno di questi risiedono i beati, che godono dell'eterna contemplazione di Dio, Sommo Bene.
Giacomino da Verona, circa 70 anni prima, nella sua "Gerusalemme celeste", descrive il Paradiso come luogo di fontane e mura d'argento, fiumi d'oro e perenni dolci canti angelici.
Ah, tra l'altro: in un cielo dantesco, i cosiddetti spiriti contemplativi (tipo San Paolo, Semele, Giacobbe) si muovono lungo una scala dorata.

Tutti noi abbiamo costruito, soprattutto nell'infanzia, un'immagine molto positiva e piacevole del Paradiso. Ma, finché viviamo sulla terra, non potremmo mai essere sicuri di ciò che ci aspetterà dopo la morte. Si può solo sperare e credere che ci sia qualcosa.
Ἄϊδος comunque, come afferma il critico letterario Marcello Campolongo, ha l'alfa privativo: α +ϊδ
"Iδ" (id) è la radice del verbo irregolare άω (orào), "vedere". Il perfetto (in greco il perfetto corrisponde al nostro italiano passato prossimo) di questo verbo è οἶδα (oida)= (ho visto e quindi so).

La povera Andromaca elenca tutte le sue grosse disgrazie.

Il Caprifico era all'epoca un luogo in cui vi erano dei fichi selvatici. Era un giardinetto circondato da mura deboli, si diceva, deboli perché fabbricate da mortali e non da un dio.

E credo non ci sia altro di importante da rilevare... Questo era il discorso di Andromaca, la settimana prossima farò un'analisi della risposta di Ettore e anche in questo caso, ci sarà abbastanza da divertirsi con le parole.

Prossimamente, semmai dovessi avere una mezza giornata libera, potrei anche tentare di scrivere a modo mio la storia di Ettore e Andromaca!!! Ci proverò prima o poi, ci proverò! ;-)


1 aprile 2018

Un'altra Pasqua:

Vorrei iniziare quest'ultimo post dedicato al Triduo Pasquale e alla festività più importante dell'anno con il "Canto alla vita" di Bocelli.



Ieri ovviamente sono stata alla Veglia. E' da anni che non vado più a messa la mattina di Pasqua, proprio perché ci tengo un sacco ad ascoltare la Veglia della sera prima, dove la fase della liturgia della Parola è decisamente più lunga, ma, a mio avviso, ogni lettura della notte del sabato santo racchiude in sé almeno un pilastro fondamentale che dovrebbe caratterizzare il buon cristiano.
Lo so, è un pensiero originale quello che sto per esporvi, ma se traducessimo ogni lettura della Veglia in una "materia", non scolastica ma di atteggiamento morale, cosa ne scaturirebbe??

GENESI, CREAZIONE
 "E VIDE CHE ERA COSA MOLTO BUONA"
CONSAPEVOLEZZA DELLE MERAVIGLIE DEL CREATO E DEL VALORE DELLA PROPRIA CORPOREITÀ      
             
           7
GENESI, IL MANCATO SACRIFICIO DI ISACCO
 "IL SIGNORE PROVVEDE"
FIDUCIA IN DIO, IN SE STESSI E NEGLI ALTRI
                  
           6
ESODO, GLI ISRAELIANI E IL MAR ROSSO
"LE ACQUE ERANO PER LORO UNA MURAGLIA A DESTRA E A SINISTRA"
PRESA DI COSCIENZA DEL VALORE DELLA PROPRIA LIBERTÀ DI INDIVIDUO


  

                9           
ISAIA, "COMPRATE E MANGIATE, SENZA DENARO E SENZA SPESA, VINO E LATTE"

GENEROSITÀ E GRATUITÀ NEL DONARSI E NELL'AIUTARE

                8
EZECHIELE, "PORRO' DENTRO DI VOI UNO SPIRITO NUOVO" CAPACITÀ DI COMPASSIONE VERSO GLI ALTRI


                     

          6
LETTERA DI SAN PAOLO
"CONSIDERATEVI MORTI AL PECCATO, MA VIVENTI PER DIO, IN GESÙ CRISTO"
CREDERE CHE IL MALE NON HA IL SOPRAVVENTO NE' SUL BENE NE' SULLA MORTE



               7


Nella terza colonna ci sono dei numeri. (sempre se avete voglia) come me voi potete darvi un voto da 1 a 10. Non occorre che leggiate tutte le letture che vengono proposte il sabato santo, anch'io non ho voglia di rileggerle.
Le parole-chiave che ho inserito nella prima colonna bastano a rendere l'idea.

Come potete notare, la mia non è esattamente la "pagella" dell'allieva geniale.
Le valutazioni meno alte me le sono date in "fiducia" e in "capacità di compassione verso gli altri". Sono ancora alla ricerca di me stessa, ma mi conosco abbastanza bene per sapere che, sebbene la mia adolescenza sia finita, ho ancora un'autostima un pochino altalenante e abbastanza spesso dimostro poca stima nelle promesse e nelle qualità altrui.
Per giunta, talvolta sono brava a immedesimarmi nelle situazioni degli altri, altre volte invece, ed è più forte di me, giudico in modo tagliente e impietoso gli errori e i comportamenti delle persone.
Ma questo lo faccio per lo più con chi mi ha fatto dei torti oppure con chi, per puro istinto, non mi sta simpatico.
Giustamente invece mi spetta di diritto un 9 tondo tondo in materia di "libertà". Per quello che ho vissuto, per quello che ho dovuto affrontare, per la mia ferrea volontà di "essere autentica con i pregi che ho coltivato e che continuo a coltivare", senza voler assumere comportamenti conformisti e acritici, senza aver mai rinunciato a impegnarmi per diventare il meglio di me.
Non mi sono messa 10 da nessuna parte: ho i voti compresi tra 6 e 9, come quando ero a scuola.
Però dai "debiti" sono sicuramente salva, ho i voti pieni ovunque :-)

Quest'anno, come potete ben comprendere, la Pasqua e il triduo pasquale sono stati particolarmente sentiti da parte mia, anche grazie al fatto di aver partecipato a iniziative di veglie e di riflessioni/spiegazioni bibliche organizzate dai curati della nostra vicaria.

Il messaggio di questa festività mi riempie di gioia, mi entusiasma!
Ma, a partire dalla prossima settimana, si ritorna ai temi letterari (con le figure di Ettore e Andromaca!)

Ad ogni modo, come ultimo aspetto da non trascurare, ci tenevo a precisare anche che la Pasqua, come il Natale, è costituita da due simboli, ENTRAMBI IMPORTANTI.

Parto dal discorso di una signora di Peschiera: "Per me il vero Natale è il presepe, non l'albero. Per me si dovrebbe abolirlo l'albero, è un elemento commerciale."
Allora, innanzitutto ti si potrebbe conferire la patente di superficialità assoluta.
Con buona maniera ed educazione ho cercato di spiegarle più di una volta che "l'albero di Natale proviene da una tradizione praticata sin dall'Alto Medioevo: quella di decorare, durante il mese di dicembre, con dei fiocchi e dei nastri gli abeti dei prati e dei boschi, come manifestazione della speranza della rinascita della natura e della vita a primavera."
Ma siccome ha più o meno lo stesso comportamento di mia nonna ultracentenaria, cioè quella di interrompere e di parlare con tono ancora più forte per non ascoltare (solo che mia nonna posso compatirla, per l'età, per la sua "testa quadrata" e per la completa sordità).
Il Presepe è un simbolo fondamentale, che va assolutamente fatto se credi in Gesù Cristo figlio di Dio. Ma pensiamo anche che il Natale è la speranza, in pieno inverno, della rinascita dei prati verdi, delle gemme e dei fiori. Natale è anche "aspettativa del sorgere di una nuova vita, di un'altra vita". Ed è Dio che si fa uomo, piccolo e fragile come noi.

Anche la Pasqua ha due simboli: il Cristo Risorto, che con il Suo amore ha redento l'umanità; e l'uovo pasquale. Vi proibisco di dire che uova e pulcini non hanno nulla a che fare con la Pasqua, perché fanno parte delle vendite sul mercato!
Fateci caso: in diverse chiese, soprattutto in quelle costruite nel periodo medievale, la figura del Cristo Risorto è contornata da un bordo ovoidale: questo significa che a Pasqua, festività collocata tra la seconda metà di marzo e la prima metà di aprile, la natura sta rinascendo o è appena rinata.
E il simbolo della vita è anche l'uovo, elemento in cui si sviluppano le creature, umane e animali (gestazione interna nel primo caso, la tipica covata al di fuori del corpo femminile nel secondo), che sono il futuro del mondo.

Entrambe le festività hanno due simboli, ma non è che uno sia riservato ai credenti e l'altro agli atei! Valgono entrambi e bisogna tenerli presenti.

Però in realtà la Pasqua credo abbia una marcia in più rispetto al Natale, perché ora che ci penso ha un terzo simbolo: la colomba della pace. Cristo vuole un mondo di pace, non un mondo in cui prevale la cattiveria.  
La primavera, seppur bizzarra, è una bella stagione da questo punto di vista, perché soprattutto a marzo e ad aprile vengono organizzate marce e convegni per la pace nel mondo. D'altra parte, in questi mesi gli ulivi sviluppano i germogli e la fioritura.

Quest'immagine l'ho inviata Whatsapp al gruppo dei miei adolescenti.

E questa al gruppo animatori:


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... e... Rimpinzatevi di uova di ogni genere!